Una madre
A ventisei anni avevo una pancia grande, piena di una bambina.
Non sapevo nulla, di maternità, parto e puerperio.
C’ero io, con una voglia matta di far bene e godermi la magia.
Non avevo paura. Non ne avevo al punto da non fare il corso preparto. Tenevo le mani sulla pancia per gran parte del giorno e proseguivo nella mia bolla di estasi.
Poi il sacco si è rotto, ma non per bene: appena un po’.
Era sera e ho aspettato la mattina.
Alle 9 ero in ospedale e tutto ciò che ho cercato di scacciare dai miei pensieri durante quei mesi di attesa, si è avverato.
Un’ostetrica tremenda: senza una parola mi ha infilato dentro un arnese di ferro per verificare dove il sacco si fosse rotto. Dolore. Più che dolore, paura. Più che paura, violazione. Del mio corpo, di me.
Antibiotico e induzione del parto.
L’antibiotico era proprio quello a cui avevo detto di essere potenzialmente allergica.
L’ho dovuto rifiutare. Ho dovuto firmare l’assunzione di responsabilità per non finire in shock anafilattico. Mia la responsabilità, non la loro.
I dolori delle contrazioni indotte sono stati inaspettati. Restavo senza fiato, senza sapere come fare per poter alleviare. Non avevo fatto il corso: non sapevo nulla, di nulla.
Questa è la parte migliore.
Adesso arriva la peggiore, quella che non ho raccontato finora.
Lui era lì, con me. Dalle nove del mattino, in attesa. Le carte in mano e niente altro.
Silenzio, più che altro.
Poi il letto assegnato.
I dolori forti ed io che nel letto non riuscivo a stare. Solo a cavalcioni di una sedia sembrava andare meglio. Contavo. Contavo i minuti e speravo che regolarizzassero, per finire. Finire in fretta.
Allora lui ha preso posto sul mio letto e si è messo a dormire. Dormire. Dormire.
All’arrivo della contrazione chiedevo che mi massaggiasse la schiena. Le contrazioni arrivavano.
«Non mi rompere i coglioni, sono stanco», arrivava anche la risposta.
Non so quante ore ho fatto così. Speravo che finisse in fretta e ad un certo punto ho chiesto una visita: a tre centimetri speravo nell’epidurale. Non sapevo. Io non sapevo nulla.
Da quella visita sono uscita piangendo. Sola. Piangendo. Colpa del mio collo dell’utero: troppo storto per le dita di quella stronza. Io piangevo nel corridoio. Lui dormiva nel mio letto.
Alle undici passate della sera sono tornata a cercare un’ostetrica. Forse ai tre centimetri ormai c’ero. Forse.
Era una notte strana, ma io non lo sapevo. Avevano tutti litigato fra loro. Il corridoio del reparto buio e nessuno da cui andare.
Poi qualcuno per caso è arrivato, mentre io vagavo con le contrazioni, avanti e indietro.
Ero a tre centimetri e mi hanno spostato in sala preparto per l’epidurale.
Allora lui si è alzato, ciondolante e mi ha seguito fino a quella stanzetta.
L’ostetrica, l’infermiera, il ginecologo di turno, lo specializzando e l’anestesista.
La stanza era piccola e tutti loro erano intorno a me. Qualcuno ogni tanto entrava e usciva con le dita dalla mia vagina. Non so più chi, né quante volte.
Io volevo solo dormire. Riposare. Solo finire. Finire.
Lui sull’unica sedia, ad occhi semichiusi chiedeva per quanto tempo ancora.
«Quanto c’è ancora da aspettare? Ché se è tanto vado a casa a dormire.»
Vai a dormire. Vai. Liberami da questa vergogna. Non sento altro che vergogna. Né l’umiliazione del corpo violato, né la paura del monitoraggio che dice quanto il battito della bambina sia pericolosamente basso, né la stanchezza di dodici ore di doglie, che non sono nemmeno doglie per questi che entrano ed escono dalla mia vagina come se fosse un buco qualunque.
L’ostetrica mi guarda: i suoi occhi mi dicono di non mandarlo a casa, la situazione non è tranquilla.
«C’è qualche problema?», le chiedo. Io lo so che il problema c’è: continuano a farmi spostare a destra, sinistra, sdraiata, seduta. Sono in cinque intorno a me: è logico che ci sia un problema. Forse nemmeno solo uno.
L’ostetrica non vuole spaventarmi, per fortuna, non vuole spaventarmi. Così lui va a casa a dormire.
Sono le due di notte e finalmente mi libero della mia vergogna più grande: aver mostrato a tutti con che razza di elemento ho scelto di mettere al mondo un figlio.
Alle tre e trentadue nasce mia figlia, con un cesareo d’urgenza.
Lui è a casa. Ma torna. E quando vede la bambina, addirittura, si commuove.
Io sono troppo stanca per tutto. Anche per odiarlo.
All’alba lo mandano via: doveva fermarsi prima, gli dicono, ora può pure andare.
E va.
Io resto con ventisette graffette, la flebo e il catetere.
La bambina con l’ittero e due vasi sanguigni nel cordone ombelicale, anziché tre, che, nella letteratura medica, dicono sia potenziale premonitore di problemi renali.
Tornerà il giorno dopo, nel pomeriggio, abbastanza brillo. Quasi ubriaco. Ubriaco.
Ecco. Più di lui ho odiato me.
Più di me ho detestato tutti coloro che, nel nostro percorso giudiziario, non hanno dato alcun peso a questi fatti. Anzi, questi fatti sono stati trasformati nel mio ‘dente avvelenato’. L’incapacità di vedere oltre il torto subito.
Torto… come se fosse una gentile concessione quella di partecipare alla nascita (problematica) di un figlio che non è solo della madre, ma il padre è libero di abbandonarlo al bisogno.
L’abbandono è come minimo incuria, conta poco se poi firmi un foglio con cui ti appropri di un titolo che meriti solo per aver elargito un po’ di seme.
Partiamo dal principio e diciamo le cose come stanno: se vuoi essere padre, allora il padre devi anche farlo. Da subito e sempre. Altrimenti sei donatore di sperma: grazie e arrivederci.
Arrivederci.
Io devo pensare a diventare una madre, ritrovando il mio equilibrio di persona: non ho mica tempo ed energie per occuparmi d’altro! Men che meno di rendere padre uno che non sa essere nemmeno uomo.
Una madre
Pubblicato per la prima volta il 21 maggio 2019