Parole che curano
Ero davanti alla psicoterapeuta che mi ha accolto dopo la morte delle mie figlie, lei dietro la scrivania, col camice bianco, intenta ad appuntare su un figlio quanto le stavo raccontando. Io ero dall’altra parte, gli occhi colmi di lacrime, il fazzoletto accartocciato in mano, a cercare le parole con cui descrivere ciò che provavo.
Dopo un po’ lei ha alzato gli occhi su di me, ha incontrato i miei e mi ha detto: «Questo è il lutto.»
Poi ha aggiunto qualcosa come: «Molte persone che vivono un’esperienza come la tua, sperimentano il lutto.»
Quindi mi ha spiegato cosa può succedere quando un figlio muore in grembo: quali sensazioni, quali situazioni, quali fatiche… insomma, mi ha LEGITTIMATO.
Sono uscita dal suo studio con un’altra postura: sapevo chi ero, dov’ero, cosa stavo facendo e cosa dovevo fare.
Così ho scoperto quanto potere abbiano le parole.
In realtà sapevo che fossero importanti, il mio incedere nella vita è sempre stato legato alle parole, più che altro scritte, eppure quell’occasione mi ha mostrato quanto le parole di altri siano talvolta fondamentali.
Sono essenziali quando corrispondono al sentire.
Nel mezzo di quelle descrizioni, ho preso ciò che combaciava con me e l’ho usato per riassestare il mio equilibrio.
Troppo spesso mancano le parole, troppo spesso le parole intorno a noi non corrispondono… è per questo che a quel tempo mi sono decisa a rivolgermi ad un’esperta di lutto perinatale. Intorno a me non trovavo corrispondenza.
Avevo bisogno di sentirmi dire che la mia verità aveva senso.
Allora le parole non devono essere buone o necessariamente rassicuranti, possono anche essere ruvide e disgustose, ma quando corrispondono… aprono la porta: sono cura.
Cura, parola dall’etimologia incerta che anticamente veniva legata a cuore e al detto: Quia cor urat, ossia “perché il cuore arde”, o “che scalda il cuore”. Sono parole che curano quelle che giungono al cervello nel cuore e gli permettono di parlare al cervello nel cranio generando una sintesi che ci fa sentire finalmente al nostro posto.
Da allora mi concentro sulle parole, alcune più di altre, perché a qualcuno può far bene sentirsi dire che è genitore di un angelo, una stella o una meteora, ma a qualcun altro – sebbene dia disgusto e lo trovi orrendo – la cura è sentirsi dire che è genitore di un figlio morto.
…e io lo dico… con naturalezza, perché non c’è niente di cui vergognarsi, né di cui aver paura.
L’idea che abbiamo di noi, la nostra identità, passa attraverso l’immagine che abbiamo di noi e l’immagine prende forma attraverso le parole che la descrivono.
È molto diverso raccontarsi con un termine o un altro: un angelo non è la stessa cosa di una meteora, né di una stella. Ognuno sceglierà ciò che meglio si confà con l’idea che ha di sé e di suo figlio, della sua vita e di cosa può e vuole fare della sua storia. Ma deve corrispondere… perché se non combacia, sebbene sia tanto poetico da ascoltare, non cura.
Certo che è triste ammettere che il nostro bambino è morto… certo che avremmo voluto altro per lui! Certo che potendo riavvolgeremmo il nastro e torneremmo fino al punto in cui lui era lì e noi avremmo trovato il modo di farlo vivere ancora. Certo che è difficile…
Raccontandosi poesie senza corrispondenza, non sarà più facile… Invece quando le parole combaciano, si aprono nuove strade: la nuova identità ha finalmente forma! È un cercare altre e tante parole per descriversi, esistere, dialogare, rapportarsi con sé e il fuori da sé. A quel punto stare nell’assenza del proprio bambino potrebbe essere più agevole.
Morte, morire, morto, sono tutte declinazioni impronunciabili al giorno d’oggi.
Togliere dal vocabolario una parola così significativa e determinante, significa precludersi la possibilità di descriversi e descrivere, significa rischiare di perdersi per mancanza di parole…
Parole che curano