Mamma di una figlia che non c’è
Noi genitori che contiamo figli presenti e assenti, come dovremmo presentarci alla società?
È corretto dirci: genitori tra cielo e terra, genitori di figli che ci sono e non ci sono, genitori di figli vivi e morti?
Perché domandarci se sia corretto definirci ciò che siamo e perché è tanto difficile esprimerci pubblicamente per come ci sentiamo?
La morte di un figlio non è solo la sua morte, è anche il nostro cambiamento identitario.
La nostra identità si compone di tante parti; io, per esempio, sono una persona, una donna, una donna di mezza età, una moglie, una studiosa, una studentessa, una sorella, una figlia, una madre di figli vivi e di figli morti, ecc.
Gli esseri umani sono esseri in relazione. Preferisco definirci ‘in relazione’ piuttosto che ‘sociali’ perché noi assumiamo le nostre molteplici identità attraverso la relazione con l’altro. Non ci basta stare fra gli altri, noi continuamente impariamo dagli altri, cambiamo e moduliamo le nostre sinapsi affinché il nostro stare in società sia adeguato, appagante, conforme alle aspettative. Il nostro obiettivo è essere accettati perché l’esclusione sociale comporta un grosso rischio per la sopravvivenza.
Noi esseri umani nasciamo avendo in dotazione alcune strutture indispensabili per garantirci la sopravvivenza: sappiamo dunque esprimere le emozioni di base. Il nostro linguaggio è il pianto, che allerta la nostra mamma, o chi ne fa le veci, del fatto che abbiamo bisogno di lei: possiamo avere caldo, freddo, sonno, fame, essere sporchi o – soprattutto – sentirci soli.
Sì perché un famoso esperimento, ricordato come l’esperimento delle scimmie di Harlow, ha mostrato, contrariamente alle aspettative, che i cuccioli di scimmia se devono scegliere fra una mamma fredda ma dotata di latte o una mamma morbida senza latte, scelgono la seconda. Quindi più che il latte è il senso di protezione e sicurezza che nutre i piccoli macachi. Noi non siamo tanto diversi.
Per garantirci protezione e sicurezza, impariamo a compiacere la fonte il più possibile, quindi, fin da piccolissimi, impariamo ad essere ciò che siamo sulla basa delle reazioni di chi si prende cura di noi.
Se un bambino che piange può contare sulla risposta della sua mamma, più facilmente diverrà un adulto sicuro di sé e consapevole dei suoi bisogni.
Se un bambino che piange è lasciato solo ‘così imparerà a smettere di fare i capricci’, in effetti smetterà di piangere, ma non perché il suo bisogno di sicurezza sia stato soddisfatto, piuttosto perché imparerà che quel bisogno se lo dovrà tenere, quindi più facilmente sarà un adulto insicuro con poca consapevolezza delle sue emozioni, dato che fin da subito ha dovuto imparare a spegnerle.
Noi siamo ciò che siamo e abbiamo un’idea di noi stessi attraverso la relazione con l’altro, che si modula lungo tutto l’arco della nostra vita.
Nel punto in cui diventiamo genitori di figli che non ci sono, ci presentiamo nella relazione con l’altro con un bagaglio piuttosto scomodo e pesante.
Possiamo trovare chi non si spaventa di fronte a questa realtà e risponde al nostro pianto riservandoci quello spazio di sicurezza in cui possiamo esplorare questa parte ancora sconosciuta di noi stessi, quindi capire che tipo di genitori senza figli siamo, qual è il modo più autentico di stare in questa nuova realtà, con quali parole possiamo descriverci, ecc.
Oppure possiamo trovare chi ci esorta a rimuovere il fatto, facendoci sentire in difetto. Ecco che qui vacilliamo perché da un lato ci sentiamo scomodi, ma dall’altro sappiamo che ci stiamo esponendo alla solitudine, cioè stiamo mettendo a rischio la nostra sopravvivenza: se rifiutiamo di rimuovere, l’altro vorrà ancora avere a che fare con noi?
Come conciliare dunque il nostro bisogno di affermare questo pezzo di identità, senza rischiare il vuoto intorno?
Innanzitutto dobbiamo avere consapevolezza del meccanismo.
Il nostro titubare, l’incertezza, non sono reazioni a caso, sono risposte adattive rispetto a ciò che sappiamo essere importante: l’altro è essenziale nella nostra dimensione umana, perché – come abbiamo visto – siamo esseri in relazione.
Cercare persone che possono garantirci la sicurezza di cui abbiamo bisogno, soprattutto in questa fase della vita tanto delicata, può essere importante. Quindi potremmo rivolgerci ad un Gruppo di Auto Mutuo Aiuto, per esempio.
Darci il tempo di assemblare tutti i pezzi che compongono la nostra identità, anche facendoci accompagnare in questo percorso da qualcuno che ci autorizzi ad esplorarci senza spaventarsi, mostrandoci che non siamo in difetto, non siamo sbagliati, siamo solo in divenire. Possiamo rivolgerci quindi a figure di supporto, terapeutico o non, che conoscano il profondo e vasto mondo del lutto perinatale.
Possiamo riconoscere che le figure di riferimento nella nostra vita fino ad oggi, forse non possono aiutarci in questo frangente: potrebbero averci deluso, potremmo essere dispiaciuti, potremmo anche essere arrabbiati per questo. Possiamo però riconoscere che, forse, anche noi non sappiamo sempre affrontare nel modo più adeguato per gli altri tutti gli aspetti particolari dell’esistenza. Quindi possiamo essere comprensivi ed ammettere che se in questo momento le nostre figure di riferimento hanno vacillato, non viene meno il buono che hanno saputo aggiungere alla nostra vita fino a qui e non è detto che in futuro non ci si possa ritrovare persino più complici di prima.
Insomma, se ti senti sola o solo, se non sai come definirti, se fatichi a trovare il modo autentico con cui portare fuori questi nuovi pezzi di te, sappi che è normale e la tua reazione ha il suo senso.
Se desideri esplorare meglio questi aspetti, scrivimi, sarò lieta di accompagnarti in questo viaggio.
Mamma di una figlia che non c’è