accompagno le persone attraverso il lutto perinatale e il lutto

Innaturale, inaspettata, inconcepibile.

Innaturale, inaspettata, inconcepibile.

Sono le tre parole che di sovente si susseguono, sempre uguali, di fronte alla morte di un figlio in epoca perinatale. Parole pronunciate dalle labbra degli operatori e dei genitori.

«Non si può – dicono – non è pensabile.»

«Perché? – chiedo – Perché, se la morte è un processo naturale del vivere, questa morte non è naturale?»

«Perché non si muore piccoli, perché non si muore nel nascere – mi rispondono – non è concepibile.»

«Perché – chiedo – perché non è concepibile? Forse nasciamo già con un’aspettativa di vita stabilita, una data precisa dalla quale è concesso morire? Forse la morte non è più il processo naturale attraverso cui la vita su questa terra, per come la conosciamo, si conclude?»

Qui il pensiero si ferma e perde di ogni sua forma.

Dire che questa morte sia innaturale, inaspettata e inconcepibile autorizza a restare paralizzati, trattenere il fiato e spostarsi velocemente verso altro, verso qualcosa di più naturale, gestibile e concepito.

Possiamo lavorare su molti aspetti della comunicazione di eventi particolari, anche gravi,  purtroppo propri dell’epoca perinatale. Possiamo ragionare su quale sia il setting migliore, quali e quanti professionisti potrebbero essere presenti per agevolare la sensazione di cura della famiglia, durante il difficile momento della comunicazione della diagnosi. Possiamo immaginare di creare ambienti in cui la famiglia può restare mentre il bambino è sottoposto a cure particolari. Possiamo implementare servizi e attenzioni, finché c’è lo spazio per continuare a tenere le mani in movimento, cioè è possibile curare la patologia.

Ma quando le mani si devono fermare perché non c’è più niente da fare, allora è il vuoto. Un vuoto spesso colmato dal nulla, oppure da un opuscolo che scarica la responsabilità (o rogna) su altri. In entrambi i casi, la famiglia nel momento del trauma vero, è lasciata sola.

Cosa fare quando non c’è più niente da fare?

Quando non c’è più niente da fare, l’unica cosa che occorre fare è stare.

La cura non termina quando la patologia è interrotta dalla morte.

La cura si dovrebbe concentrare su chi resta, cioè sulla famiglia, che è costretta ad accogliere la notizia peggiore possibile.

Di cosa ha bisogno quella famiglia?

Ha bisogno di costruire uno spazio di pensiero in cui collocare un evento terribile a cui non è preparata, nemmeno quando l’evoluzione della patologia era tale da mettere in conto il peggio.

L’annuncio della morte di un figlio, per quanto comunicato nel setting migliore, con le parole più adeguate, senza interruzioni e dedicando alla famiglia tutto il tempo necessario, è sempre un precipitare violento dentro un buco nero.

L’operatore è il primo confine.

Se l’operatore mostrerà come per lui sia possibile stare in quel vuoto, darà l’esempio di come può essere possibile per la famiglia trovare in quel vuoto il suo nuovo equilibrio.

Cosa cambierebbe se la morte, tutta, a qualunque epoca si presenti, fosse concesso d’essere quel che è: un processo naturale del vivere?

Pur restando un evento doloroso e sconvolgente, quando alla morte è restituita la sua naturalezza, è possibile cominciare a considerarla come un evento possibile. Non più una sfortuna o una punizione, bensì l’esito di ogni processo di vita.

Quindi si apre la prospettiva di accogliere nella propria narrazione familiare la vita di un figlio che è morto, ma solo dopo essere vissuto. Di questo figlio realmente vissuto restano lo spazio, il tempo e soprattutto l’investimento emotivo.

L’amore non va perduto con la morte. Resta come patrimonio del tratto di vita condiviso.

Una vita realmente vissuta che si sia conclusa ha legittimamente libero accesso alle consuetudini legate al commiato. Esperire il rituale proprio dell’ultimo saluto, legittima non solo la vita del defunto, ma anche il dolore dei suoi cari per la sua perdita e quindi il lutto.

Il dolore della morte ha un limite.

Il limite di quel dolore è solido tanto più si rivelerà solida la capacità delle persone intorno di sostenere quel limite. Il limite può essere sostenuto quando sono restituiti dignità e valore alla vita appena conclusa.

Saper stare coi genitori in quel dolore, senza fare, anche senza parlare, rimanda che la morte, e il dolore che ne segue, possono essere esperiti e possono così evitare di trasformarsi nei demoni che li perseguiteranno per sempre.

Saper stare accanto a chi soffre, accanto senza sostituirsi, accanto senza giudicare, accanto senza interferire, accanto autenticamente, accanto con empatia, cioè con la capacità di sentire quel dolore senza affondare in esso, è ciò che occorre quando non c’è più niente da fare.

Saper stare accanto a chi soffre ha un valore inestimabile.

Al congresso «La nascita che vorremmo», organizzato dalla Associazione Scientifica Andria, ho conosciuto moltissime persone desiderose di affinare il loro saper stare e non solo nel lutto perinatale, lasciandomi la stupefacente sensazione che a piccoli passi ci avviamo verso una nascita sempre più vicina a quella che vorremmo.

Innaturale, inaspettata, inconcepibile.

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