È un’ingiustizia!
«Perché lei ha potuto avere una figlia che ha lasciato morire in modo atroce ed io invece devo patire l’ingiustizia di vedere morire i miei figli in grembo senza poterne stringere alcuno?»
Quando ascoltiamo le storie altrui è automatico immedesimarsi.
Negli ultimi anni hanno diffuso questa pratica sotto una definizione errata, anche se molto evocativa e piuttosto abusata: empatia.
L’empatia non è mettersi nei panni dell’altro.
L’empatia è sentire ciò che sente l’altro a prescindere da sé.
Cioè, bisogna togliersi di mezzo ed entrare in contatto con l’altro in modo profondo, fino a sentire ciò che sente.
Difficilissimo da fare. Chi ci riesce in genere non lo sbandiera ai quattro venti: è un suo modo d’essere e di approcciare al prossimo.
Quando mi confronto con l’altro, giudicandolo per giunta, non sono affatto empatico. Dimostro di non sapermi togliere di mezzo.
Emerge l’ego.
Emergono i problemi, le insicurezze, i dolori, le frustrazioni…
Ognuno ha la sua storia, unica e inimitabile.
Non esiste un dio che dà e che toglie, a meno che non ci faccia comodo avere qualcuno con cui prendercela per gli accadimenti dolorosi o da lodare per quelli più lieti.
Non fa.
Siamo noi ad avere bisogno di sapere che ci sia qualcuno a proteggerci o metterci alla prova: ce lo raccontano da migliaia di anni… così abbiamo imparato a non bastare a noi stessi, a non osservarci, conoscerci, comprenderci. Tanto c’è qualcun altro che lo fa. Ma lo fa?
Nessuno lo sa, al massimo ci si può credere: la fede è una roba irrazionale che si posa sul bisogno di trovare risposte che non ci sono, per ora.
Nell’esperienza umana c’è potenzialmente tutto: ci sono famiglie felici, famiglie infelici. Ci sono vite dolorose, altre meno.
Ognuno ha la propria esperienza ed è già così difficile restare in equilibrio nella propria che non so come si possa pensare di sapere come fare per stare in equilibrio in quella di qualcuno che nemmeno si conosce.
Quando si tratta di dolore, si ignora che tutto il nostro modo di approcciare alla vita, ci porta ad avere bisogno di trovare un colpevole. Sì perché il dolore non è un’espressione possibile dell’esistenza, è certamente una punizione, oppure una prova, oppure un fardello. Prendersela con Dio, con altre esistenze lontane dalla nostra, in termini di esperienza, credo e valori, sembra una via di fuga utile. Per qualche ora c’è qualcuno da mandare affanculo, senza per altro risolvere niente. Restiamo qui a fare i conti con le nostre fatiche, avvertite come un’ingiustizia.
Quando entro in contatto con storie dolorose, mi concedo di provare dispiacere, perché sono umana e penso che la mia umanità si esprima anche nella capacità di compatire, cioè soffrire insieme all’altro.
Ognuno ha la propria storia, la propria occasione, la propria esperienza, conta cosa vogliamo farne di questa occasione.
Per fare il meglio possibile non serve mettersi in gara con l’altro, arrabbiarsi con l’altro, pensare che ci sia una sorta di conto che debba tornare.
In una storia di dolore si può solo stare, come in qualunque altra storia, che sia la propria o l’altrui.
Stare nel dolore è difficile.
Basta ammetterlo.
Non serve di più.
Mi dispiace per quella piccola e per la sua mamma.
Mi dispiace per tutte quelle mamme che non possono stringere i loro bimbi fra le braccia.
Mi dispiace per tutti coloro che soffrono.
Spero trovino la loro pace, spero che la cerchino dentro di loro, perché è lì che si trova, non fra le pieghe delle vite altrui.
È un’ingiustizia!
Pubblicato per la prima volta il 22 luglio 2022