Augurare il lutto durante il lutto
Quante volte ci capita di trovarci in mezzo a persone che riteniamo insensibili, incapaci di prestare attenzione alle nostre fragilità, comportandosi come degli schiacciasassi?
Per esempio… a quanti di noi è capitato di sentirsi raccontare le vicissitudini della gravidanza in corso, sebbene fosse risaputo che avessimo vissuto un aborto?
Perché le persone si comportano in questo modo e perché noi ci sentiamo così colpiti da questi comportamenti?
Anche a me è capitato di assistere a festeggiamenti per una nuova nascita, mentre piangevo la morte in grembo di una delle mie figlie. Anche a me è stato chiesto di partecipare alla gioia, ché non c’è sempre e solo il dolore – per fortuna!
Eppure non ce la facevo e mi sentivo così affranta, sola, persa, invisibile…
Adesso provo a spiegarti come ho interpretato il mio sentire e cosa ho fatto per gestirlo.
Inquadriamo prima la situazione: come sappiamo…
Il lutto è una fase della vita durante la quale si lavora attivamente e incessantemente per ritrovare l’equilibrio. Vacilliamo perché il nostro mondo si è stravolto dalle fondamenta: ciò in cui confidavamo è venuto meno e non sappiamo da che parte girarci. Il dolore… quella sofferenza atroce viene dalla recisione netta di una relazione fondamentale. Senza quella persona, noi non siamo più noi. Non sappiamo più chi siamo, chi possiamo diventare, se ancora possiamo essere qualcuno.
Le dinamiche nelle quali ci troviamo dipendono dagli schemi che il nostro cervello ha acquisito per orientarsi nel mondo e trovare velocemente le risposte necessarie affinché possiamo mantenere il controllo.
Il cervello vuole il controllo e ragiona per causa-effetto: se accade questa cosa qui, rispondo con quella cosa lì.
Lui deve prevedere ciò che accadrà per mettere in atto velocissimamente quelle risposte capaci di garantirci la sopravvivenza.
È sulla base di come funziona il nostro cervello che noi maturiamo un’idea del mondo e di noi.
Fin da quando nasciamo impariamo, assorbiamo dall’ambiente intorno a noi, come si fa per mantenerci in vita, ponendo attenzione e tutto ciò che sfugge al nostro controllo, imparando dunque dagli errori.
La morte è un fatto completamente fuori dal nostro controllo, in questa particolare epoca e in questo pezzo di mondo.
Noi siamo stati privati degli strumenti per far fronte alla morte, ormai da secoli, cioè da quando l’uomo ha pensato di ottenere talmente controllo su tutto, da vincere persino la morte.
Senti come ho espresso questo pensiero?
La vita è stata raccontata come una lunga guerra, fatta di battaglie aspre e dolorose, con l’obiettivo di superare la morte. La morte è un evento che si frappone fra noi e la nostra eternità (il senso dell’esistenza assegnato da questa cultura). Un evento da eliminare, poiché potremo esprimerci pienamente solo quando vivremo per sempre.
Quindi la morte è da sconfiggere e quando invece è lei a vincere (SEMPRE!) allora noi abbiamo fallito.
Ed eccomi qua.
Fallita come persona che non ha vinto la morte.
Fallita come madre, che non ha protetto il suo cucciolo dalla morte.
Fallita come donna, che se non riesce a diventare madre di un figlio vivo, ma cosa ci sta a fare?
Le persone intorno a me sono state cresciute con gli stessi principi, dunque ciò che sanno fare è riconoscere il fallimento (il mio), intravvedere il loro prossimo (perché prima o poi moriranno anche loro), non sapere come rapportarcisi (perché il fallimento non è contemplato) e puntare sulla loro vittoria attuale, molto più gratificante e semplice da gestire.
Cosa avrei voluto che gli altri facessero per me?
Avrei voluto che mi dicessero come fare per stare dove non avevo gli strumenti per stare. E non mi interessava che anche loro non li avessero, perché il grado di sofferenza che pativo mi faceva andare in protezione, mettendo in atto la tipica reazione che ha il cervello quando è in difficoltà: attacco-fuga.
Quindi un “Andate al diavolo!” generale e la fuga nella mia tana dove mi sarei nuovamente potuta sentire al sicuro.
Come hanno reagito gli altri?
Beh, hanno cercato di cogliere il mio stato d’animo, senza riuscirci molto. Non è stata una mancanza di sensibilità, piuttosto un vuoto nel codice del sistema operativo: a quella situazione non c’era altra risposta possibile fra le disponibili se non l’attacco-fuga, perché anche loro si sono trovati dove non sapevano come stare.
Quindi un “La vita va avanti, pensa alle cose belle!” e si sono ritirati nella loro dimensione di comfort.
Se anche loro vivessero il lutto allora saprebbero…
Ed ecco da dove viene il mio augurare il lutto durante il lutto: dall’idea che una simile esperienza corrisponda alla stessa reazione, perciò solo chi ci è passato può capire.
Viene dal desiderio di trovarmi in una situazione parimenti incontrollabile: mal comune, mezzo gaudio.
Se siamo falliti entrambi, fa meno male. Perché per il cervello, fra le cose che gli garantiscono il controllo, c’è il mantenimento dello status. Non gli piace sentirsi meno degli altri. Va bene stare sullo stesso piano, meglio se li supera.
Che ogni esperienza sia unica e non sia affatto detto che un evento simile provochi le stesse reazioni nell’altro, al cervello poco importa: lui cerca di ottenere soddisfazione. Il pensiero che anche l’altro sia sofferente allo stesso modo e non mi debba sentire l’unica fallita, dà un certo sollievo. Non sono cattiva, sto solo mettendo in atto le reazioni che il mio cervello ha imparato essere quelle che ripristinano il controllo.
Questo particolare frangente mostra alcuni schemi dentro i quali il mio sistema operativo mi fa muovere, schemi appresi in decine di anni di esperienza durante i quali ho osservato le dinamiche (persone, film, libri, canzoni, quadri, ecc.) intorno a me, assorbendo come si fa:
- se non vinco la morte sono una fallita
- il fallimento è una perdita di status
- per riequilibrare lo status, dobbiamo fallire tutti nello stesso modo
Mi è chiaro che la mia identità è completamente da ricostruire e che sia il momento per chiedermi se desideri ricostruirla sulla base degli assunti che mi sono stati propinati come veri, oppure se posso/voglio cambiare punto di vista.
La morte è un nemico da sconfiggere? La vita è una guerra composta da tante battaglie? È proprio da questi punti di vista che voglio osservare e compiere il mio passaggio qui?
Ho scelto di cambiare il modo di percepire la realtà, sovvertendo ciò che da sempre mi è stato detto.
La morte è l’ultimo atto dell’esperienza terrena, non la devo vincere, ma esperire, perché anche questo pezzo mi rende ciò che sono.
La vita non è una guerra, bensì l’esperienza che come essere vivente compio nella dimensione terrena.
E gli altri? Gli altri sono il risultato degli assunti che hanno acquisito come veri e degli strumenti che hanno potuto apprendere strada facendo: non mi aspetto che abbiano un comportamento diverso da quel che dimostrano, semplicemente perché non possono. Per ora. Nel tempo, posso contribuire a cambiare l’idea che c’è sulla morte e su come stare accanto a chi soffre, generando una cultura diversa da quella in cui siamo immersi noi oggi.
Io sono e resto fonte attiva sia dell’esperienza che sto vivendo, sia delle ricadute che questo mio passaggio può avere oltre me, nell’ottica di rendere i passaggi altrui più agevoli.
Comprendere quali sono gli schemi che mi portano a vivere certe dinamiche, mi dà la possibilità di scegliere di modificarli, cambiando così le emozioni che provo e sentirmi meglio.
Cosa fare quando mi trovo a desiderare che l’altro patisca il mio stesso dolore?
Riconoscere che si tratta del desiderio che ha il mio cervello di ristabilire il controllo. Riconoscere che il lutto è una grave perdita di controllo che non sono stata preparata a fronteggiare. Sebbene non sia stata preparata, dispongo delle risorse necessarie: esse risiedono nella mia memoria generazionale. Da sempre siamo chiamati a confrontarci con la morte e fin qui ci siamo riusciti, non essendoci ancora estinti. Riconoscere che l’altro non è in grado di starmi accanto perché gli manca la conoscenza, come manca a me.
La nostra vita è frutto della storia che ci raccontiamo, che proviene dal nostro cervello, il più abile fra i narratori.
Lui costruisce il palco, lo arreda e mette in atto la trama sulla base di ciò che ha appreso. È un maniaco del controllo, abitudinario e abile sintetizzatore di complessità.
Noi siamo esseri complessi e straordinariamente dotati. Possiamo prendere le redini della nostra trama e ristabilire la dinamiche degli eventi. Prima però dobbiamo maturare la consapevolezza di essere nella narrazione che ha costruito il nostro cervello e di avere il potere di gestirlo, perché è nostro, come nostra è la storia.
Anche tu ti sei trovata o trovato ad augurare il lutto durante il lutto?
Se desideri confrontarti con me su questo, scrivimi.
Augurare il lutto durante il lutto
Pubblicato per la prima volta il 18 aprile 2023